(prigionieri della propria libertà)

Una serie di immagini digitali che sono lo spunto per indagare il tema dell’alterità dal punto di vista introspettivo, seguendo la sottile linea di confine che fa scattare meccanismi di protezione.

Il “filo spinato” dentro immagini di denuncia ha attraversato generazioni, definendo in modo chiaro ruoli e polarità contrapposte, ma quando le regole divengono sottili e la gabbia diviene impercettibile, dove nasce il senso di oppressione, cosa fa sentire il corpo e la volontà imprigionati? In “Prisoners of own liberty” a imbrigliare non è l’immagine classica del filo spinato, ma una rete di fili visibili/invisibili. La nudità femminile dentro le maglie di fili è nello sviluppo delle capacità di modificazione trasformazione, essa infatti, il suo elemento, la sua fisicità, è la più insofferente allo stato di coazione, e fa perdere le proprie tracce sotto le spinte di un forte inconscio capace esso stesso di dipanare fitte trame che irretiscono.

L’istinto alla clausura concatena molteplici e contraddittori percorsi che deviano dall’interno verso l’esterno e poi ritornano nel movimento inverso. E’ come muoversi lungo una linea di confine dove tutto è indefinito, non c’è un carceriere, un aguzzino, non c’è nessun oppressore identificabile come tale. Potrebbe esserci un nemico alle porte, ma “il nemico è dentro di noi”. E’ sempre labile il limite tra ciò che si considera normale e potrebbe non esserlo, si acquisisce consapevolezza delle catene che legano solo nel momento in cui ci si libera di esse, altrimenti resta solo una vaga percezione di ciò che sta al di là e delle infinite possibilità precluse. Andando per stratificazioni successive, per disvelamenti, si potrebbe scoprire che l’intrigo di fili è il modo in cui si costruisce il pensiero, le forme del linguaggio con cui si articola strutturano alvei, casematte, bunker protettivi, che poi vengono proiettati all’esterno sul piano della comunicazione. Forme di pensiero che si cristallizzano, che si configurano come autoclausura.

Per quanto evoluti, sono sempre meccanismi elementari e primitivi a determinare comportamenti individuali e collettivi, ancestrali paure usano nuovi e sottili trucchi per mimetizzarsi, La paura è come un animale che costruisce la propria tana nell’oscurità, ad essa risponde il bisogno di protezione. Il modo in cui un individuo risponde ad essa può avere similitudini col modo in cui un popolo risponde alla paura. La paura dell’Altro e il bisogno di identificare un nemico, è il più elementare di questi meccanismi, ed è noto come esso venga usato in modo ricorrente come strumento di potere.

Come un’onda, la linea di confine passa dalla dimensione individuale a quella collettiva, determina comportamenti e investe la sfera delle identità. Muoversi lungo questa linea di confine, tra condizione e negazione della libertà, imparare a snidare le paure, saperle riconoscere, dargli un nome, potrebbe essere l’inizio di un lungo cammino che rimette in discussione sovrastrutture culturali, ed essere il punto di partenza per affrontare in modo nuovo le cosiddette battaglie per i diritti civili.

Si potrà ancora scegliere la clausura delle “murate” storiche del ponte di Firenze, per cancellare il mondo e ricostruirlo dall’interno, pezzo su pezzo, ma come apertura alle vie del possibile, che è una cosa ben diversa dall’essere “prigionieri della propria libertà”, dal costruire recinti e muri in cui autorecludersi nella difesa del privato come soggetto a privazione, o di un’identità chiusa dentro le frontiere nazionali.

Testo Aldo Saracino (albamuth)